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1978




Una costruzione estremamente rarefatta di scansioni geometriche, che modulino l’intero spazio ambientale: questa forse la meta attuale di Jacques Toussaint, un giovane artista francese che da alcuni anni (dal ‘72) risiede a Lerici e si è inserito con autorità tra coloro, in Italia, che credono in un recupero delle arti visuali attraverso i media più tipici delle stesse, senza andare a caccia di, spesso pericolose, contaminazioni letterarie, teatrali, poetiche. Non si creda tuttavia che l’opera di Toussaint si possa far rientrare semplicemente nell’ambito dell’arte concreta o del costruttivismo prebellico; e neppure del neo-concretismo di cui negli ultimi tempi si sono potuti osservare numerosi sviluppi. In realtà la vera meta cui il giovane francese mira è piuttosto quella d’una modulazione spaziale che venga a inglobare lo spettatore e che costituisca pertanto un’autentica realtà ambientale. Il fatto stesso di concedere il primo posto, nelle sue ultime sperimentazioni, al fattore luminoso - e quindi al chiaroscuro, alle ombre, al rilievo, - ci dice subito come egli tenga conto innanzitutto della componente volumetrica, anche se il più delle volte la tridimensionalità è soltanto virtuale. Partito, alla fine degli anni sessanta, da ricerche legate al tachismo allora imperante in Francia e altrove (gli ovvi influssi d’un Bazaine, d’un Estève, ci dicono come, a quell’epoca, i canoni dell’Ecole de Paris fossero prevalenti nella sua opera), Toussaint si liberò presto dall’imprecisione e dalla «sensiblerie» di quell’atmosfera ancora post-impressionistica - per volgersi a ricerche più ordinate, più programmate, e sopratutto svincolate dalla dittatura - dolce ma rischiosa - del cromatismo parigino. Fu così che, già a partire dal 1969, Toussaint, era giunto ad una fase assai matura della sua nuova maniera: fase dominata dalla creazione di strutture geometrizzanti, in parte a incastro, in materiali diversi (legno, feltro), dove venivano anche utilizzate sovrapposizione e slivellamenti tra diversi spessori. Il trapasso da queste forme elementari, ma ancora «sensuali », a quelle più nettamente geometriche, dove il colore era totalmente abolito, si rendeva, a questo punto, indispensabile, e prevedibile. Toussaint si volse a sperimentare l’uso di sagome estremamente elementari, spesso usando materiali semplici, come fogli di carta o di cartone tra di loro embricati o sovrapposti, con il rifiuto d’ogni colore, fatta eccezione per il bianco e il grigio. A questo punto - e siamo ormai al 1972 - l’artista era maturo per l’abbandono anche di queste ultime vestigia cromatiche, mentre la sua sensibilità per il contrasto volumetrico delle forze si veniva estrinsecando mediante l’impiego, per la prima volta, di elementi sollevati: strisce sottili, triangoli, quadrati, che con il loro aggetto sulla superficie uniforme e candida del «quadro», creavano dei rilievi non solo per il loro spessore, sempre assai limitato, ma ancor più per l’incidenza che la luce proiettata sulla superficie determinava, attraverso le molteplici ombre suscitate da ogni minimo slivellamento. Si veniva, così, realizzando un nuovo genere di modulazione spaziale: non più soltanto l’interferire tra di loro di moduli geometrici (memori di tante analoghe costruzione del costruttivismo internazionale), quanto la vitalizzazione della superficie che - attraverso l’aggetto di triangoli e quadrati o di esili strisce divisorie - acquistava spessore e volume, si proiettava in una terza dimensione, anche se prevalentemente virtuale. Oggi, finalmente, - in questa edizione della Expo-Arte di Bari - Toussaint, ci si presenta con un’opera che risulta molto più significativa delle singole tavole che l’hanno preceduta: una vasta parete (di metri 9x2,50) - un vero e proprio murale - che consta, oltre che d’una superficie lignea modulata in segmenti di legno di 100x100 cm. appoggiati alla parete, di due ulteriori strutture volumetriche distaccate dalla stessa a creare due sorte di «quinte» percorribili dal visitatore e tali da costituire un autentico ambiente spaziale. Questo ambiente - perfettamente candido e ravvivato dalla presenza di brevi «pensiline» (di circa 2 cm.) aggettanti sulla superficie del murale, che acquistano in seguito all’incidenza luminosa, un particolare rilievo - costituisce un’importante tappa nell’evoluzione della sintassi compositiva dell’artista; e dimostra, altresì, come l’apparente regolarità del tracciato sia continuamente «disturbata» dall’interferire dei settori illuminati e di quelli in ombra; ma chiarisce, inoltre, come quest’opera si presti molto bene alla osmosi con qualsiasi elemento architettonico. Quella modularità, infatti, che, nell’ambito d’un singolo «quadro-da-appendere-al-muro» risulta talvolta monotona o non sufficientemente autonoma, viene invece ad acquistare - nel suo connubio con l’architettura - tutt’altra efficacia.

A dimostrare che le speranze d’un interazione tra architettura ambientale e arti visuali non si possono considerare ancora del tutto spente.

Gillo Dorfles
in “Jacques Toussaint”,
Edizioni Arser, Brescia 1978

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